Ha condotto alcune indagine statistiche sulla pratica religiosa. Intervistando le persone in due città campione, è emerso che il 33,1% dichiarava di andare a messa tutte le domenica. Verificando il dato, contando le persone che entravano in chiesa nelle stesse città campione, è risultato che solo il 17,60% si recava in chiesa per la messa.
In un certo senso, sociologicamente parlando, si potrebbe dire che questo corrisponde ad un fenomeno di desiderabilità sociale, cioè rispondo alle domande che mi vengono rivolte secondo quella che è una mia opinione. Per me andare a messa alla domenica è una cosa buona anche se io non ci vado.
Il pluralismo non si può esaudire solo con i dati dei cattolici. I cittadini italiani che appartengono a religioni differenti da quella cattolica sono circa il 3%. Se aggiungiamo il flusso migratorio si raggiunge il 10%. Nell’enciclopedia delle religioni vengono censite 866 religioni, da intendersi 866 realtà religiose organizzate con le loro cappelle, chiese, moschee, ecc..
Interessante leggere i dati dell’appartenenza religiosa degli immigrati (dati 2018); gli ortodossi 1.523.300, 918.00 cattolici, 1.682.600 musulmani, 152.500 induisti, 224.400 protestanti, 4.600 ebrei
Il pluralismo religioso ci offre lo spunto per fare una considerazione. Abbiamo visto che i cattolici in Italia definiti con la pratica dichiarata rappresentano il 25% della popolazione, le minoranze religiose il 4%, gli atei il 5%, il fenomeno migratorio religioso il 6%. Arriviamo ad un 40% dei nostri concittadini. Ma il restante 60% in materia di religione, come si pone? In materia di spiritualità, di relazione con il trascendente, di una forma di vita ultraterrena con le domande essenziali della vita che danno luogo al senso religioso, chi sono, da dove vengo, perché c’è il male nel mondo. Il 60% non è ateo, non è cattolico, non appartiene ad una minoranza ma crede a modo suo: è quello che viene definito “believe without belonging” cioè credere senza appartenere.
Credono a modo loro e ci accompagneranno fino alla fine dei tempi.
In un certo senso, sociologicamente parlando, si potrebbe dire che questo corrisponde ad un fenomeno di desiderabilità sociale, cioè rispondo alle domande che mi vengono rivolte secondo quella che è una mia opinione. Per me andare a messa alla domenica è una cosa buona anche se io non ci vado.
Il pluralismo non si può esaudire solo con i dati dei cattolici. I cittadini italiani che appartengono a religioni differenti da quella cattolica sono circa il 3%. Se aggiungiamo il flusso migratorio si raggiunge il 10%. Nell’enciclopedia delle religioni vengono censite 866 religioni, da intendersi 866 realtà religiose organizzate con le loro cappelle, chiese, moschee, ecc..
Interessante leggere i dati dell’appartenenza religiosa degli immigrati (dati 2018); gli ortodossi 1.523.300, 918.00 cattolici, 1.682.600 musulmani, 152.500 induisti, 224.400 protestanti, 4.600 ebrei
Il pluralismo religioso ci offre lo spunto per fare una considerazione. Abbiamo visto che i cattolici in Italia definiti con la pratica dichiarata rappresentano il 25% della popolazione, le minoranze religiose il 4%, gli atei il 5%, il fenomeno migratorio religioso il 6%. Arriviamo ad un 40% dei nostri concittadini. Ma il restante 60% in materia di religione, come si pone? In materia di spiritualità, di relazione con il trascendente, di una forma di vita ultraterrena con le domande essenziali della vita che danno luogo al senso religioso, chi sono, da dove vengo, perché c’è il male nel mondo. Il 60% non è ateo, non è cattolico, non appartiene ad una minoranza ma crede a modo suo: è quello che viene definito “believe without belonging” cioè credere senza appartenere.
Credono a modo loro e ci accompagneranno fino alla fine dei tempi.